(13 Apr 07)
Marco Belpoliti
Milano come Napoli. Una pattuglia di vigili ferma per controllo un’automobile guidata da una cinese. Le viene contestata un’infrazione, probabilmente un collaudo non fatto. Scoppia un alterco. La donna è a terra. Accorrono i giovani commessi cinesi dei negozi di fronte. Urla, botte, caccia al vigile accusato di aver picchiato la donna.
È la rivolta. Arrivano a sirene spiegate le auto della Volante. Poi i poliziotti in divisa antisommossa. Rione Sanità? No, via Paolo Sarpi, nel cuore del centro pulsante di Chinatown: il commercio all’ingrosso di filati, capi d’abbigliamento, bigiotteria, un giro di milioni di euro ogni anno, ma anche un viavai di furgoni.
Vengono a far spesa nel suk orientale da tutto il Nord, e persino dalla Croazia e dalla Slovenia. Nelle vie strette della zona stazionano a ogni ora del giorno furgoni, camioncini, macchine familiari, Suv. Scaricano e caricano la merce che raggiungerà i mercati rionali e quelli delle piccole città, i negozietti degli italiani ma anche i teli stesi a terra dei vu’ cumprà. Un traffico che s’aggiunge a quello intasato e mortifero dell’intera capitale del Nord, problema irrisolto di almeno tre giunte municipali.
Da anni i cittadini della zona, in maggioranza italiani, lamentano che il quartiere è stato abbandonato a se stesso: nessuna disciplina nel concedere licenze, carico e scarico a tutte le ore, i soldi dei commercianti cinesi che acquistano contante alla mano e a prezzi fuori mercato i negozi, scomparsa di panetterie, salumerie, ortolani e altri esercizi al minuto a vantaggio dell’ingrosso cinese.
Un’associazione, «Vivisarpi», ha inalberato un anno fa le sue bandiere arancione che ora pendono stinte da balconi e finestre. Una pressione durata anni che è culminata in un’agitata assemblea pubblica con il vicesindaco, De Corato, esponente di An, che sostituiva il sindaco Moratti, la quale in campagna elettorale aveva fatto numerose promesse agli elettori della zona. Ecco allora la soluzione: trasformare via Sarpi e altre strade, centro del quartiere cinese, in zona a traffico limitato. Ecco la dinamite nascosta sotto l’alterco con i vigili: è in gioco un grosso affare commerciale che la comunità cinese, compatta, vive come un atto proditorio contro di sé.
Dopo aver lasciato per anni via Sarpi come una zona franca, oggi il Comune ha deciso di ripristinare un minimo di legalità, almeno lungo le strade, facendo multe alle macchine in doppia fila o parcheggiate sui marciapiedi, controllando i furgoncini di scarico e carico, impedendo il traffico dei carrelli sui marciapiedi. I giovani e giovanissimi commessi cinesi, guidati da piccoli megafoni, in maggioranza donne, occupano il quadrivio del quartiere inalberando le bandiere rosse della Repubblica Popolare e striscioni in cui denunciano il razzismo contro la loro comunità. Molti probabilmente abitano i dapu, le cuccette in cui dormono nella zona decine e decine di persone, posti letti organizzati di 18 e più brande, dove si alternano i nuovi immigrati da Fushun, la grande città industriale del Nordest della Cina. Stefano Boeri e la sua équipe di Multiplicity li ha censiti in un libro recente sull’abitare a Milano, descrivendo anche la topografia delle «cuccette» al pianoterra, spesso ex laboratori-abitazioni del quartiere, lasciati liberi dagli artigiani emigrati altrove. Un elemento d’illegalità che l’amministrazione comunale e le autorità di polizia non sembrano aver perseguito, incapaci di far fronte, come tutte le istituzioni di Milano, ai problemi di una città che sembra assomigliare sempre più alla sua omologa meridionale.
Se nella Napoli descritta da Roberto Saviano l’intreccio tra camorra e mafia cinese è sempre più stretto, a Milano, come raccontava l’altroieri un giovane cronista di City, la free press locale, Davide Milosa, si estende il racket della prostituzione e della droga che ha il suo baricentro a Chinatown: pizzo ai commercianti cinesi, intrecci tra mafia orientale e cosche calabresi, bordelli clandestini, usura, riciclaggio, banche illegali. Il suo articolo, cucito con riferimenti presi dalla cronaca milanese degli ultimi mesi, descrive Milano come se fosse la Chicago di Al Capone, con giovani cinesi agguerriti della She Tou, le «Teste di serpente», che mantengono l’ordine per conto di vecchi boss che si spostano a bordo di auto di lusso: esili, pallidi, vestiti all’occidentale. Un film di Scorsese in salsa cinese.
In effetti, il problema milanese con cariche della polizia, pestaggi, scritte e bandiere, giovani che tirano bottigliette d’acqua sugli agenti – bottigliette fornite dal bar di una connazionale per dissetare i manifestanti – è assai aggrovigliato e dimostra ancora una volta l’incapacità della classe politica meneghina di gestire l’emergenza che avanza. Questi ragazzi che fischiano e vociferano tra via Sarpi e via Bramante, denunciando la discriminazione razziale, sono arrivati pagando un prezzo salato ai mercanti d’uomini, probabilmente hanno documenti falsi e nessun permesso di soggiorno; racimolano stipendi stentati e pagano 10 euro al giorno per il posto nella camerata affollata, con la speranza di migliorare la propria vita, di accedere a quella ricchezza che invece la vecchia generazione del Chekiang, nel Sud della Cina, ha raggiunto da tempo. Una divisione di classe che raramente emerge all’esterno, anche per via del gap linguistico, e che corrisponde a un’altra, più visiva: la città dei negozi cinesi ad altezza dei marciapiedi, e la città, sempre più invisibile, degli abitanti italiani dal primo piano in su. Chi saprà sciogliere questo nodo all’italiana in cui il «politicamente corretto» s’intreccia con problemi ambientali, di convivenza civile, illegalità e regole che nessuno sembra più deciso a far rispettare? Reduce dalla manifestazione sulla sicurezza da lei fortemente voluta come un atto politico interno alla CdL, Letizia Moratti si trova tra le mani una nuova patata bollente in una città sempre più chiusa a riccio su se stessa, incapace di dialogo, come ha ricordato don Virginio Colmegna, uno dei preti milanesi più attivi nella società civile, presentando davanti a una folla straboccante di giovani, alla Triennale, Cronache dell’abitare di Boeri, un lavoro che fotografa lo stato d’allarme rosso dell’ex capitale morale. Chissà se lo hanno letto, a Palazzo Marino. Oggi dovrebbero: una cruda fotografia della città che ha perso la sua anima. Come sostiene da tempo uno scrittore cattolico milanese, Luca Doninelli.