Archivio per 13 aprile 2007

Considerato che…

(14 Apr 07)

Andrea’s version

Considerato che: il partito nascituro si chiamerà manco a dirlo “democratico”; che adesso anche Di Pietro rilascia ogni giorno patenti di democrazia e che il massimo della democrazia sembra rappresentato dal blog di Beppe Grillo. Considerato che se Wolfowitz raccomanda l’amante è la prova che non c’è democrazia; se Pansa scrive il libro che ha scritto si tratta di un attentato alla democrazia; che quando un erede di Borrelli può fare arrestare qualcuno, quello allora è il trionfo della democrazia. E considerato che tutte le volte che qualcuno muove il culo, spunta immancabilmente qualcun altro che pone subito un problema di “rispetto della democrazia”.
Considerato questo.
Preso atto del fatto che Berlinguer era un supercampione di democrazia e Craxi no. Che Violante sì e Pannella dipende. Che Intini guai ma a un certo punto sì. Che Travaglio sì, che Franca Rame certamente, che Padoa-Schioppa e i tecnici ci mancherebbe altro, e che ridere delle amanti dell’Amor nostro è democrazia mentre ridere delle fuitine di Sircana è un attentato alla democrazia, si chiede allora all’alleato Bush: siamo convinti di voler esportare una ciofeca del genere?

Il Pd arriva sui giornali. Anche troppo

(13 Apr 07)

Nicola Piepoli, oltre a essere persona simpatica nonché il primo ad aver parlato di sondaggi politici in tv, s’è incaricato ieri di un compito importante.
Dimostrare che coi numeri, volendo, si può fare tutto.
Così, dopo i mal di pancia del 23 o 25 per cento assegnati al Partito democratico virtuale da alcuni eminenti istituti, ieri Piepoli ha tirato su il morale.
Secondo lui, saremmo a metà tra il 25 e il 30: che è già qualcosa, per un partito che nel 2007 si ispira a Craxi, Berlinguer e De Gasperi.
Ma non basta. Perché poi il grande Piepoli fa una previsione sul cui valore scientifico non azzardiamo valutazioni, ma che ha un grande potere onirico: con Walter Veltroni leader, infatti, il Pd balzerebbe al 45 per cento.
Cioè governo assicurato per una vita, e senza dipendere dalla sinistra rossoverde (per parte sua impegnata, apprendiamo da Liberazione, a rifare Epinay 1971, senza avere né Mitterrand né Veltroni, né senso della misura e del tempo che passa).
Ci scusiamo per l’ironia, che non vuole colpire né Piepoli né tanto meno Veltroni (fossimo matti: e se poi è tutto vero?). Il fatto è che in questi giorni – fra cifre, polemiche, terze gambe, scambi epistolari e riabilitazioni – il Pd è esplososulle pagine di giornali che per mesi l’avevano ignorato. Ed ecco l’impressione immediata per centinaia di migliaia di lettori, cioè l’opinione pubblica più avvertita: un casino totale.
L’evento appare lanciato mediaticamente allo sbaraglio, senza la minima regia. Non c’è un messaggio condiviso, uno slogan, un coordinamento fra le parti su cosa dire o non dire.
Bravi a vincere i congressi, i leader si sono dimenticati di spiegarsi con gli italiani. Se sperano nei fuochi d’artificio di Firenze e Roma sbagliano, perché i messaggi passano secondo altri tempi e canali. Noi, in attesa che Veltroni ci porti al 45 per cento e nonostante gli inglesi non vadano di moda, ci acconteremmo di un Mandelson de noantri a fare comunicazione.

Mastella e la crisi di governo

(12 Apr 07)

Giuliano Ferrara

Sul referendum elettorale ha detto quello che tutti i piccoli partiti pensano.

La riforma della legge elettorale, che è stato uno dei salvagenti che hanno permesso al governo di Romano Prodi di restare in carica dopo le note bocciature parlamentari, rischia di essere lo scoglio sul quale è destinato a incagliarsi definitivamente. Ds e Margherita, anche su questo argomento, giocano su due tavoli, appoggiando formalmente il tentativo di soluzione parlamentare affidato a Vannino Chiti, ma senza sognarsi di sconfessare i loro esponenti, ministri compresi, che puntano invece alla soluzione referendaria. La formula che viene impiegata per giustificare queste ambiguità è quella della “pistola sul tavolo”, cioè della minaccia referendaria funzionale a imporre ai piccoli partiti riottosi l’accettazione di una riforma parlamentare.

In realtà tutti sanno che per loro, oltre alla Scilla del referendum e la Cariddi di una riforma parlamentare con lo sbarramento, c’è una terza possibilità, quella di affondare la nave del governo prima che li porti a quella stretta. Clemente Mastella, a differenza di quelli che si limitano a pensarlo, lo ha detto esplicitamente: prima del referendum si va a una crisi dell’esecutivo. D’altra parte è abbastanza evidente che una coalizione così fragile e così divisa difficilmente reggerebbe a una situazione nella quale i partiti si affrontano sulle piazze proponendo soluzioni diverse per il meccanismo elettorale. Quello di Mastella, quindi, è più un allarme che una minaccia, il che lo rende anche più preoccupante per le sorti dell’esecutivo.
A queste tensioni non sono estranei i calcoli di chi punta a far cedere il governo, come si dice, “da destra”, per evitare che l’apertura di una frattura irreparabile tra sinistra radicale e riformista impedisca la formazione di un cartello elettorale competitivo. Queste speculazioni, però, nascono per effetto dell’evidente incapacità dell’Unione di fornire un centro di equilibrio alla coalizione. Con i suoi partiti, Ds e Margherita, in preda a lotte di potere e a secessioni annunciate, raggelata da sondaggi elettorali catastrofici, l’area su cui è in costruzione il Partito democratico non è in grado di fornire garanzie a nessuno. Le linee contraddittorie che segue sulla questione elettorale, come su quasi tutte le altre, ne fanno il terreno sul quale si esercitano le influenze, le pressioni e persino i ricatti provenienti dall’esterno, invece che il centro ordinatore della coalizione. Mastella si è limitato a dire che il re è nudo, non è lui che gli ha tolto i vestiti di dosso.

Diciamoci la verità.

(13 Apr 07)

Andrea’s version

Sono capitate cose brutte, diciamo pure bruttissime, ma sono pur sempre capitate in Afghanistan. E non sarà carino dirlo, ma finché capitano laggiù si può ancora chiudere un occhio, fare i furbetti, affidare la faccenda a Gino Strada, mettere la politica nelle mani di Emergency e perfino far pendere il paese dalle labbra della moglie del dottor Gino, dopo aver massacrato i servizi di intelligence. Tanto bene questa cosa non andrà, ma alla fine della fiera una pezza ci si mette.
La questione si complica, invece, alla luce delle ultime notizie. Non so se siano vere. Resta il fatto che se davvero le minacce jihadiste si rivolgono adesso direttamente al nostro territorio, e se le voci di attentati in Italia hanno una qualche consistenza, e se l’intenzione islamista di colpirci proprio in casa venisse confermata, allora non si potrebbe più scherzare. Non basterebbe Emergency, in questo caso. La cosa diventerebbe maledettamente seria. Non perderemmo tempo, se fossimo nei panni del governo. Proprio no. Il compito di difendere il paese va immediatamente affidato all’Arcicaccia.

La differenza tra i talebani e Fabio Fazio

(13 Apr 07)

Emanuele Macaluso

L’aspra polemica sul ruolo di Emergency nella vicenda del sequestro e della liberazione di Daniele Mastrogiacomo è, come sempre accade in questo Paese, segnata dall’ipocrisia. Non fate gli ingenui (a destra e a sinistra): per riscattare gli ostaggi in mano ai terroristi (in Afghanistan, in Iraq e in ogni altra parte del mondo) occorre trattare e per farlo è inevitabile usare canali affidabili per entrambe le parti.
Si tratta spesso di persone addestrate al doppio gioco, che stanno con un piede da una parte e l’altro da quella opposta. È chiaro che l’uomo di Emergency ora nelle carceri dei servizi afghani appartiene a questa razza. Questo lo sapeva Strada e lo sapeva anche il governo Karzai. Il quale ora rompe il gioco e vuole strizzare l’uomo di Emergency per avere più informazioni sui canali di contatto. È un gioco sporco in una situazione lurida. La reazione di Strada è comprensibile, ma spropositata: quando c’è una guerra in corso col terrorismo le regole saltano. Riprendo il discorso che ho fatto martedì su questo giornale: chi sceglie ruoli rischiosi deve mettere in conto che può essere colpito. O Strada pensa che fare quel che ha fatto è come andare a chiacchierare con Fabio Fazio?

L’altra Gomorra

(13 Apr 07)

Marco Belpoliti

Milano come Napoli. Una pattuglia di vigili ferma per controllo un’automobile guidata da una cinese. Le viene contestata un’infrazione, probabilmente un collaudo non fatto. Scoppia un alterco. La donna è a terra. Accorrono i giovani commessi cinesi dei negozi di fronte. Urla, botte, caccia al vigile accusato di aver picchiato la donna.

È la rivolta. Arrivano a sirene spiegate le auto della Volante. Poi i poliziotti in divisa antisommossa. Rione Sanità? No, via Paolo Sarpi, nel cuore del centro pulsante di Chinatown: il commercio all’ingrosso di filati, capi d’abbigliamento, bigiotteria, un giro di milioni di euro ogni anno, ma anche un viavai di furgoni.

Vengono a far spesa nel suk orientale da tutto il Nord, e persino dalla Croazia e dalla Slovenia. Nelle vie strette della zona stazionano a ogni ora del giorno furgoni, camioncini, macchine familiari, Suv. Scaricano e caricano la merce che raggiungerà i mercati rionali e quelli delle piccole città, i negozietti degli italiani ma anche i teli stesi a terra dei vu’ cumprà. Un traffico che s’aggiunge a quello intasato e mortifero dell’intera capitale del Nord, problema irrisolto di almeno tre giunte municipali.

Da anni i cittadini della zona, in maggioranza italiani, lamentano che il quartiere è stato abbandonato a se stesso: nessuna disciplina nel concedere licenze, carico e scarico a tutte le ore, i soldi dei commercianti cinesi che acquistano contante alla mano e a prezzi fuori mercato i negozi, scomparsa di panetterie, salumerie, ortolani e altri esercizi al minuto a vantaggio dell’ingrosso cinese.

Un’associazione, «Vivisarpi», ha inalberato un anno fa le sue bandiere arancione che ora pendono stinte da balconi e finestre. Una pressione durata anni che è culminata in un’agitata assemblea pubblica con il vicesindaco, De Corato, esponente di An, che sostituiva il sindaco Moratti, la quale in campagna elettorale aveva fatto numerose promesse agli elettori della zona. Ecco allora la soluzione: trasformare via Sarpi e altre strade, centro del quartiere cinese, in zona a traffico limitato. Ecco la dinamite nascosta sotto l’alterco con i vigili: è in gioco un grosso affare commerciale che la comunità cinese, compatta, vive come un atto proditorio contro di sé.

Dopo aver lasciato per anni via Sarpi come una zona franca, oggi il Comune ha deciso di ripristinare un minimo di legalità, almeno lungo le strade, facendo multe alle macchine in doppia fila o parcheggiate sui marciapiedi, controllando i furgoncini di scarico e carico, impedendo il traffico dei carrelli sui marciapiedi. I giovani e giovanissimi commessi cinesi, guidati da piccoli megafoni, in maggioranza donne, occupano il quadrivio del quartiere inalberando le bandiere rosse della Repubblica Popolare e striscioni in cui denunciano il razzismo contro la loro comunità. Molti probabilmente abitano i dapu, le cuccette in cui dormono nella zona decine e decine di persone, posti letti organizzati di 18 e più brande, dove si alternano i nuovi immigrati da Fushun, la grande città industriale del Nordest della Cina. Stefano Boeri e la sua équipe di Multiplicity li ha censiti in un libro recente sull’abitare a Milano, descrivendo anche la topografia delle «cuccette» al pianoterra, spesso ex laboratori-abitazioni del quartiere, lasciati liberi dagli artigiani emigrati altrove. Un elemento d’illegalità che l’amministrazione comunale e le autorità di polizia non sembrano aver perseguito, incapaci di far fronte, come tutte le istituzioni di Milano, ai problemi di una città che sembra assomigliare sempre più alla sua omologa meridionale.

Se nella Napoli descritta da Roberto Saviano l’intreccio tra camorra e mafia cinese è sempre più stretto, a Milano, come raccontava l’altroieri un giovane cronista di City, la free press locale, Davide Milosa, si estende il racket della prostituzione e della droga che ha il suo baricentro a Chinatown: pizzo ai commercianti cinesi, intrecci tra mafia orientale e cosche calabresi, bordelli clandestini, usura, riciclaggio, banche illegali. Il suo articolo, cucito con riferimenti presi dalla cronaca milanese degli ultimi mesi, descrive Milano come se fosse la Chicago di Al Capone, con giovani cinesi agguerriti della She Tou, le «Teste di serpente», che mantengono l’ordine per conto di vecchi boss che si spostano a bordo di auto di lusso: esili, pallidi, vestiti all’occidentale. Un film di Scorsese in salsa cinese.

In effetti, il problema milanese con cariche della polizia, pestaggi, scritte e bandiere, giovani che tirano bottigliette d’acqua sugli agenti – bottigliette fornite dal bar di una connazionale per dissetare i manifestanti – è assai aggrovigliato e dimostra ancora una volta l’incapacità della classe politica meneghina di gestire l’emergenza che avanza. Questi ragazzi che fischiano e vociferano tra via Sarpi e via Bramante, denunciando la discriminazione razziale, sono arrivati pagando un prezzo salato ai mercanti d’uomini, probabilmente hanno documenti falsi e nessun permesso di soggiorno; racimolano stipendi stentati e pagano 10 euro al giorno per il posto nella camerata affollata, con la speranza di migliorare la propria vita, di accedere a quella ricchezza che invece la vecchia generazione del Chekiang, nel Sud della Cina, ha raggiunto da tempo. Una divisione di classe che raramente emerge all’esterno, anche per via del gap linguistico, e che corrisponde a un’altra, più visiva: la città dei negozi cinesi ad altezza dei marciapiedi, e la città, sempre più invisibile, degli abitanti italiani dal primo piano in su. Chi saprà sciogliere questo nodo all’italiana in cui il «politicamente corretto» s’intreccia con problemi ambientali, di convivenza civile, illegalità e regole che nessuno sembra più deciso a far rispettare? Reduce dalla manifestazione sulla sicurezza da lei fortemente voluta come un atto politico interno alla CdL, Letizia Moratti si trova tra le mani una nuova patata bollente in una città sempre più chiusa a riccio su se stessa, incapace di dialogo, come ha ricordato don Virginio Colmegna, uno dei preti milanesi più attivi nella società civile, presentando davanti a una folla straboccante di giovani, alla Triennale, Cronache dell’abitare di Boeri, un lavoro che fotografa lo stato d’allarme rosso dell’ex capitale morale. Chissà se lo hanno letto, a Palazzo Marino. Oggi dovrebbero: una cruda fotografia della città che ha perso la sua anima. Come sostiene da tempo uno scrittore cattolico milanese, Luca Doninelli.

Così il voto è carne di porcellum

(13 Apr 07)

Michele Ainis

All’insegna della nuova legge elettorale si va consumando l’ennesimo misfatto. Fra un paio di settimane i referendari cominceranno a raccogliere le firme per cambiarla. Nel frattempo i partiti fanno slalom fra un tatarellum e un porcellum, fra l’idea di scimmiottare la Germania piuttosto che la Spagna o l’Inghilterra. Questo spettacolo va in onda nel disinteresse della pubblica opinione, anche perché chi ci capisce è bravo. C’è però un punto che mette d’accordo ogni partito, sia pur lasciando in disaccordo gli elettori: la nuova legge manterrà il sale della vecchia, ossia le liste bloccate. Militano difatti in tale direzione sia la proposta del centro-destra sia la bozza Chiti, per quanto è possibile saperne; d’altra parte, il referendum è di per sé impotente a espellere del tutto la trovata che a suo tempo fu di Calderoli.

Converrà allora rinfrescarci la memoria, anche perché questo marchingegno è forse il più grave scandalo della democrazia italiana. Significa che nei collegi i partiti presentano un elenco del telefono di nomi, ciascuno col suo numeretto in ordine progressivo; che i 3 o 4 capilista possono tuttavia candidarsi in ogni collegio del territorio nazionale, ciò che alle politiche del 2006 si è verificato puntualmente; che dunque all’esito del voto si profila una gran quantità di «plurieletti», i quali poi, optando per questo o quel collegio, decidono la sorte di chi si trova in coda nella lista; e che infine la decisione avviene all’insaputa del corpo elettorale.

Da qui il monopolio dei partiti sugli eletti. In passato avveniva attraverso la selezione delle candidature, e dunque prima del responso delle urne; però ai cittadini rimaneva pur sempre la possibilità di mettere una croce sull’uno o sull’altro candidato designato dai partiti. Insomma, una scelta di secondo grado, ma meglio questo che niente. Viceversa, con la legge approvata durante l’agonia del secondo governo Berlusconi non ci è rimasto in mano niente. La scelta è tutta nelle mani dei partiti, perché si esercita non prima bensì dopo la tornata elettorale, che diventa quindi un rito senza la partecipazione dei fedeli, una messa senza eucaristia.

D’altronde, l’esperienza del 2006 è eloquente. La campagna elettorale si è giocata sul simbolo dei partiti, non sulla faccia dei candidati. Niente cartelloni col sorriso a 34 denti dei peones, bensì soltanto maxifotografie dei leader, dei big. Reciso il cordone ombelicale fra eletti e territorio, dato che in molte situazioni i primi avevano casa altrove, e non si erano mai fatti vedere nel collegio che (suo malgrado) li avrebbe mandati in Parlamento. In compenso, niente spese folli per la campagna personale: a che sarebbero servite? Meglio un inchino al capo, una visita ossequiente alla direzione del partito. Risultato: un terzo dei parlamentari è stato in realtà cooptato alla Camera o al Senato, non già scelto direttamente dal corpo elettorale. E oltretutto per saperne i nomi abbiamo dovuto attendere un paio di settimane, dal 9 al 26 aprile, prima che si dipanasse la catena di Sant’Antonio fra eletti rinuncianti e primi dei non eletti subentranti.

Questo sistema di stampo notabilare e oligarchico non ha eguali al mondo. Né giustificazioni: l’esigenza di nazionalizzare la gara elettorale e di rafforzare la leadership – invocata dai suoi (pochi) difensori – è in realtà una balla. Per fare un solo esempio, nel Regno Unito il candidato premier è presente in un solo collegio uninominale: o la va o la spacca. E d’altronde anche chi, a suo tempo, aveva concepito questa legge l’ha poi definita «una porcata». Ma la porcata espande il potere delle segreterie e perciò conviene a tutti, ai partiti di destra come a quelli di sinistra. Infatti è dura liberarsene.


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