Posts Tagged 'Sorgi'

Ultimi fuochi

27 Ott 08

Marcello Sorgi

Da sinistra a destra, all’indomani del corteo del 25 ottobre, tutti si chiedono cosa farà Veltroni, quali saranno le sue prossime scadenze, quali i suoi nuovi obiettivi. Ieri Berlusconi lo ha punzecchiato, minimizzando la riuscita della manifestazione di sabato. Ma il segretario del Pd, in un’intervista al Tg1, ha cercato egualmente di capitalizzare il risultato che per molti ha segnato la rinascita del suo partito e della sua leadership personale, dopo i lunghi mesi difficili seguiti alla sconfitta elettorale e all’abbandono della strategia del dialogo con il governo, inaugurata, e subito accantonata, in apertura della legislatura.

In qualche modo Veltroni è oggi nella stessa situazione in cui si trovava Berlusconi nel 2006: con un colpo di schiena s’è rimesso in piedi, dopo un periodo in cui pareva giorno dopo giorno soccombere agli attacchi interni delle varie componenti del Pd e alla dura campagna di delegittimazione orchestrata dal centrodestra nei suoi confronti.

E anche se, diversamente dal Cavaliere quand’era all’opposizione, realisticamente non può puntare alla caduta del governo, ben più solido di quello traballante di Prodi, Veltroni deve comunque fare una scelta, tra la spinta antagonista venuta dai marciatori del Circo Massimo e l’identità riformista, di vera alternativa di governo, che il Pd s’è data fin dalla nascita.

Al dunque, questa è la vera differenza tra i due cortei e i due popoli che in meno di due anni hanno sfilato per le stesse vie di Roma, mostrando le due facce prevalenti di un Paese che tuttavia coltiva ancora una diffidenza di fondo per la politica. Mentre infatti Berlusconi marciava alla testa della sua gente per obiettivi che erano della sua gente, come la riduzione del costo dello Stato e di conseguenza delle tasse, la ristrutturazione di tutti i comparti pubblici e l’eliminazione dell’assistenzialismo, a vantaggio di più concorrenza, opportunità per i privati e allargamento del mercato, Veltroni, concordando nel suo discorso di sabato su una parte degli stessi traguardi, si ritrovava a schierarsi contro i desideri di buona parte del popolo del suo partito.

Basti pensare a quanti, tra quelli che sono andati al Circo Massimo, sono convinti che i salari, l’assistenza e i posti di lavoro debbano crescere, e le tasse scendere, indipendentemente dal risanamento dei conti dello Stato. E a quanti – non solo i maestri elementari colpiti dal decreto Gelmini – ritengono che i contratti del pubblico impiego debbano essere irrobustiti e firmati, a prescindere dal numero degli stipendi che ogni mese lo Stato paga oggi e dovrà pagare nei prossimi anni, nonché da ogni ragionevole progetto di ristrutturazione che premi il merito invece che il numero dei dipendenti statali, e si proponga di introdurre nel settore pubblico le normali regole che da anni governano il lavoro nelle aziende private.

Se Veltroni – come aveva fatto a Torino all’atto della sua incoronazione a segretario del Pd, e come aveva continuato a fare durante la campagna elettorale – avesse detto anche una sola di queste verità al popolo del Circo Massimo, probabilmente avrebbe rischiato dei fischi. E se avesse aggiunto – più o meno come nel primo discorso alla Camera da capo dell’opposizione – che con un governo che poggia su una così forte maggioranza parlamentare, piuttosto che cercare di abbatterlo, è più facile collaborare, nell’interesse del Paese e nella prospettiva di poterlo sostituire nella prossima legislatura, avrebbe dovuto temere anche il peggio.

Ma questo è appunto l’arduo compito dei leader: muovere la società civile con le proprie battaglie ideali, raccoglierne il consenso, e indirizzarlo poi politicamente nella giusta direzione. Del resto, nella situazione in cui siamo e di fronte all’aggravarsi, giorno dopo giorno, della crisi economica mondiale, anche molte delle parole d’ordine su cui Berlusconi ha costruito il suo successo sono destinate ad appannarsi. Perché ad esempio, nell’era degli aiuti di Stato alle grandi banche, e – presto – alle aziende private in difficoltà, sarà più duro chiedere ai dipendenti pubblici, dagli insegnanti ai semplici impiegati della Cgil che si rifiutano di firmare il contratto proposto dal ministro Brunetta, di sopportare sacrifici diversi, o addirittura superiori, a quelli, per dire, dei dipendenti bancari che in Italia vengono salvati, e non mandati a casa com’è accaduto in America a quelli della Lehman Brothers.

Così, mentre tutto – dalla scuola alla Rai, alle prossime elezioni europee – politicamente porta il capo del governo e quello dell’opposizione a uno scontro più aspro, sarà il contesto tragico della crisi mondiale a spingerli a un ripensamento, e a una ripresa, è sperabile, seppur guardinga, dello spirito di collaborazione.

Allo stato attuale – visti anche i sondaggi, che puniscono simmetricamente maggioranza e opposizione in eterna lotta tra loro – non resta che augurarselo. E non solo per la stanchezza di un confronto quotidiano degenerato ormai troppo spesso a scambio di insulti. Nei momenti delicati, per il bene del Paese, sia governare sia stare all’opposizione vuol dire fare quel che si deve, non quel che si vuole. E, giunti agli ultimi fuochi, Berlusconi e Veltroni almeno questo dovrebbero saperlo. Se non lo sanno, ormai, al punto in cui sono arrivate le cose, dovrebbero aver cominciato a capirlo.

In difesa del tifoso normale

6 Set 08

Marcello Sorgi

Premessa: dopo l’assalto al treno di domenica, ad opera degli ultrà del Napoli, un giro di vite ci voleva, e molte delle decisioni prese per far sì che il campionato di calcio vada avanti senza violenze vanno bene.

Forse però sarebbe stato opportuno, in questi stessi giorni, pensare al tifoso senza aggettivi, quello che già da domani – senza colpe e ingiustamente -, comincerà a scontare anche lui la pena inflitta ai teppisti delle curve.

Non solo il padre di famiglia napoletano, che abbiamo sentito lamentarsi in questi giorni davanti alle telecamere dei tg. Ma più in generale, la tifoseria italiana, che in queste ultime domeniche di sole sarebbe salita volentieri sulle gradinate degli stadi, e invece, in buona parte, ne sarà impedita. Anche se il presidente del consiglio (e del Milan) in persona s’è affrettato a precisare che il divieto delle trasferte riguarderà solo quelle organizzate (in pullmann, in treno, in gruppo), e che le partite a porte chiuse saranno imposte solo in casi di effettiva emergenza, è sicuro che la già complicata trafila per assicurarsi un posto bordo campo diventerà ancora più impervia: basti solo pensare alle restrizioni per l’acquisto dei biglietti, ai controlli sulle identità degli acquirenti (con più difficoltà per chi va con figli piccoli che non hanno documenti), e all’impossibilità di comperare i tagliandi, in alcuni casi, nella propria città. Senza dire che, come purtroppo è accaduto in passato, per compiere un delitto sugli spalti non è necessario essere in migliaia: bastano quattro o cinque delinquenti, arrivati con la loro macchina.

La mappa messa a punto dall’Osservatorio del ministero dell’Interno non lascia molte speranze: a parte quelle di Fiorentina e Lazio (quest’ultima, evidentemente guarita, figurava fino a qualche anno fa nelle graduatorie di rischio dell’Interpol), tutte le tifoserie delle altre squadre sono considerate a rischio. Che poi una valutazione così allarmata arrivi dopo che il ministro Maroni aveva coraggiosamente messo sotto accusa la struttura del Viminale, sarà anche positivo, ma lascia pensare. La macchina della sicurezza ha voluto evidentemente mettersi le spalle al sicuro per non incorrere, in futuro, in nuove accuse di leggerezza.

Ancora, qualche perplessità, pur conoscendo l’esperienza professionale del Capo della Polizia, viene anche a proposito dell’allarme diffuso sulla «criminalità organizzata» che starebbe dietro alle scorrerie degli ultras. Qui davvero sarebbe necessario un chiarimento: perché se si parte dal fatto che tra i tremila di Napoli, e più dettagliatamente tra gli ottocento fermati che avevano precedenti specifici, ci sono anche molti appartenenti a organizzazioni criminali come camorra e ‘ndrangheta, siamo a un dato di fatto. Ma è francamente poco credibile che organizzazioni che sono da sempre dedite ad attività di lucro, dal traffico di droga al controllo delle estorsioni, scoprano la violenza nel calcio come nuovo settore di intervento. A che pro? E per guadagnarci cosa?

Così come è sacrosanto che il delinquente abituale debba essere giudicato con più severità, se commette reati insieme con gli ultras, bisognerebbe trovare il modo di chiarire che un pregiudicato in libertà provvisoria o in attesa di giudizio, se non fa violenze e va allo stadio solo per divertirsi, ha tutto il diritto di fare il tifoso, senza pregiudizi e senza essere associato a forza ai teppisti che si comportano male.

Infine il paragone con l’Inghilterra, dove, si ricorda ogni volta che da noi capitano episodi come quelli di domenica scorsa, la violenza degli hooligans è stata sconfitta una volta e per tutte con i metodi duri. Va detto che non è stato un miracolo, e a dire la verità il problema non è stato neppure risolto del tutto: se dentro gli stadi l’ordine è tornato a regnare, tutt’attorno la guerriglia si rialza continuamente, con risse, aggressioni, accoltellamenti e anche peggio.

Ci sono alcune differenze su cui si potrebbe riflettere. In Inghilterra, tutti o quasi gli stadi sono di proprietà delle società calcistiche, che a casa propria fanno le regole che vogliono (e vengono insegnate a scuola, con visite guidate di intere scolaresche), poi riempiono le gradinate di stewards nerboruti dalle intenzioni esplicite. In Italia, gli stadi sono generalmente di proprietà comunale, le società vengono chiamate in causa senza avere la minima possibilità di intervenire, e la sicurezza è affidata alle forze di polizia: con tutte le garanzie del caso, come quelle che hanno fatto sì che i tremila identificati siano stati in gran parte denunciati a piede libero, e i fermati, scarcerati.

In Inghilterra gli ultras colti in flagrante vengono processati per direttissima in un’auletta all’interno dello stesso stadio, e di lì, dopo la condanna, trasferiti direttamente in carcere. Pene anche più dure riguardano i colpevoli di reati fuori dagli stadi, nei dintorni: se anche le aggressioni o le lesioni provocate non sono state particolarmente gravi (per intenderci, quelle che da noi sono punite con sei mesi e la condizionale), gli arrestati vengono ugualmente portati in cella, a prescindere dall’età e dai precedenti, e colpiti da misure di polizia che consentono, a certe condizioni, di lasciare in detenzione anche per cinque anni un minore di quattordici anni.

Una logica molto dura, ancorché efficace: e ovviamente, discutibile. Grazie alla quale i diritti del tifoso normale, senza aggettivi, sono tutelati senza difficoltà. Negli stadi inglesi, mentre padri e figli guardano le partite, passeggiano madri di famiglia con le carrozzine e signore anziane prendono il tè. Da noi invece, a spasso solo un giorno dopo gli incidenti di Napoli e Roma, c’erano gli stessi che avevano demolito il treno e cacciato i passeggeri che avevano regolarmente pagato il biglietto.

Modello tedesco

15 Lug 08

Marcello Sorgi

Sarà pure la Grande Riforma, il tema attorno a cui ieri hanno discusso appassionatamente per ore due leader di opposizione come D’Alema e Casini, l’ambasciatore (il ministro Calderoli) di un leader di maggioranza come Bossi, il fior fiore dell’Associazione costituzionalisti, compresa una delegazione dei costituzionalisti dissidenti che hanno appoggiato il Lodo Alfano, oltre, ovviamente, a parlamentari, tecnici, professori e osservatori qualificati di ben 14 diverse fondazioni.

Ma un po’ per il clima ancora di scontro, che non pare dei più propizi, un po’ per il tenore di certi interventi che vanno letti tra le righe, il vero oggetto del contendere del convegno, nato con l’ambizione di segnare un punto di svolta, nel dialogo fin qui inconcludente tra maggioranza e opposizione, era chiaramente il dopo-Berlusconi. Argomento delicato e realisticamente non all’ordine del giorno, a pochi mesi dalla terza vittoria elettorale del Cavaliere e dalla nascita del suo quarto governo. E tuttavia, mai come di questi tempi, discusso, all’inizio della legislatura che potrebbe sancire, di qui al 2013, il ventennio del leader del centrodestra.

Ovviamente nessuno si propone di far fuori Berlusconi con una trappola o un’«intentona», e la stessa via giudiziaria, che in tempi passati era apparsa ai suoi avversari come la più concreta, sta per essere neutralizzata dalla legge sull’immunità per le alte cariche dello Stato. Si tratterebbe, piuttosto, di trovare un metodo, il più possibile condiviso, per arrivare a un’alternativa non solo politica, di sinistra o di destra, ma in qualche modo anche istituzionale, alla lunga stagione di potere del Cavaliere. Una strada per uscire dallo scontro selvaggio, personalistico, e dalla campagna elettorale permanente, che, vuoi o non vuoi, si ripropone tutte le volte che Berlusconi vince e torna al governo. E per chiudere con un sistema di regole nuove la lunga, infinita, transizione italiana.

Ci sono stati due approcci al problema, dal 14 aprile ad oggi. Uno, a partire dall’iniziativa dello stesso Berlusconi, ha instaurato il dialogo tra il premier e il capo dell’opposizione e la consultazione permanente Veltroni-Letta. Di qui, sulla base della disponibilità del leader del Pd di votare una serie di riforme concordate, si sarebbe dovuto dar vita a una legislatura costituente, breve ma molto produttiva. Alla fine della quale, diciamo dopo tre anni, un Berlusconi rinnovato, ammantato di toga istituzionale e circondato dal rispetto che si deve ai padri costituenti, sarebbe stato pronto per essere giubilato e trasferito al Quirinale. Naturalmente restava il problema della prematura uscita di scena dell’attuale Capo dello Stato che tutto questo avrebbe comportato. Ma in qualche modo, almeno nei piani, il ridisegno dell’impianto istituzionale l’avrebbe giustificata, mentre destra e sinistra, in nuove elezioni anticipate, sarebbero tornate a contendersi la guida del Paese.

Anche se questo disegno non è stato mai ufficializzato esplicitamente (solo Berlusconi, al suo solito, ci ha scherzato su), qualche accenno, qualche immancabile discorso di corridoio – oltre all’accelerata del premier sulla legge blocca-processi – sono bastati a farlo saltare per aria, a colpi di girotondi, di rigurgiti di antipolitica, di manifestazioni di comici in Piazza Navona e di urla di Di Pietro, il leader che ha tratto più vantaggio da questa stagione. Ad oggi, sembra molto difficile che Veltroni, pur distinguendosi meritoriamente dalle furie estremiste, possa avventurarsi di nuovo sulla strada del dialogo, a pochi mesi dalla campagna elettorale per il referendum e le elezioni europee.

Ma con gran dispetto proprio del leader del Pd, che si ritiene l’unico titolato ad aprire e a chiudere il dialogo sulle riforme, la seconda strada per il dopo-Berlusconi l’hanno aperta ieri D’Alema e i suoi interlocutori. Essa prevede di andare avanti con o senza il consenso di Berlusconi, e si rivolge a tutti quelli che dentro la maggioranza e l’opposizione hanno a cuore il problema. A Bossi, per esempio, che dopo l’esperienza della legislatura 2001-2006 sa bene che solo l’approvazione con una maggioranza parlamentare di due terzi garantisce il federalismo da una successiva abrogazione referendaria. E a Casini, per fare un altro esempio, che, stanco delle pene dell’opposizione, potrebbe trovare nel sistema elettorale tedesco l’occasione di rilancio delle proprie ambizioni centriste e forse anche della candidatura per la leadership del governo. E va da sé che il convitato di pietra, assente al convegno di ieri, ma interessato per forza di cose a un processo del genere e impossibilitato a restarne fuori, è il presidente della Camera Fini.

Nella lunga storia della Grande Riforma, il dialogo si è sempre fatto fa in due, prevedendo che un terzo ne facesse le spese. Nella Prima Repubblica, ai tempi della Commissione Bozzi, De Mita cercava il dialogo con Berlinguer per ridimensionare Craxi. Nella seconda, ai tempi della Bicamerale D’Alema, Prodi si sentiva la vittima designata, e giocò tutto, salvo poi perderci il posto, per far sì che Berlusconi gettasse all’aria il tavolo delle riforme.

Ma stavolta, nel triangolo D’Alema-Casini-Bossi, non c’è solo il Cavaliere, che avendo la guida del governo e alle sue spalle, fresca, una grande vittoria elettorale, ha ancora molte frecce al suo arco, sia per dialogare con D’Alema, sia per evitare di finire travolto dalla nuova stagione riformista. Accanto a lui, paradossalmente, c’è anche il leader del Pd che ha appena rotto il dialogo. Perché se il sistema elettorale diventa simile a quello tedesco, se si sceglie la via del ritorno al proporzionale, è l’equilibrio bipartitico, oltre a tutto l’impianto maggioritario della Seconda Repubblica, che viene messo in discussione. Si correrebbe, alla fine, per Palazzo Chigi, in tre o in quattro piuttosto che in due, e gli accordi finali sul governo, anziché essere presi prima di fronte agli elettori, verrebbero poi stabiliti in Parlamento come ai tempi della Prima Repubblica.
Così è possibile che del dopo-Berlusconi si continui a discutere a lungo, con o senza il Cavaliere.

A colpi d’emergenza

28 Mag 08

Marcello Sorgi

Certo, è piovuta come un macigno, sulla già tragica situazione di Napoli, l’inchiesta giudiziaria che ha portato all’arresto di 25 dipendenti del commissariato ai rifiuti, tra cui Marta Di Gennaro, la vice del sottosegretario Guido Bertolaso ai tempi in cui era solo commissario, e ancora, ma solo da indagato, il suo predecessore prefetto Alessandro Pansa. Nel giorno in cui un accordo precario ha consentito di rimuovere le barricate di Chiaiano – ma non ancora i cumuli di monnezza dalle strade -, tutto è più incerto, tutto è tornato in discussione.

A una lettura anche sommaria delle carte, le accuse infatti sono molto pesanti: funzionari dello Stato, impiegati e responsabili delle ditte che dovevano fronteggiare l’emergenza si sarebbero macchiati di «generalizzate quanto deplorevoli e inquietanti prassi che hanno connotato l’intera abusiva gestione», e avrebbero fatto «ricorso ai più disparati espedienti per la dissimulazione della realtà, controlli apparenti, controllo dei controllati, valenza esclusivamente scenografica di riunioni per l’allestimento dati, il cui dichiarato possesso era solo un bluff».

Di qui la truffa e altri pesanti reati che la magistratura avrebbe già accertato, con una serie di perizie inoppugnabili.

Gli indagati avrebbero dovuto assicurare che la monnezza tolta dai marciapiedi sarebbe stata sottoposta a un procedimento chimico, una sorta di disinfezione, prima di avviarla agli inceneritori o alle discariche. Invece, stando a quanto hanno accertato le indagini, si limitavano a compattare i sacchetti, a farne dei grossi pacchi – impropriamente definiti «ecoballe» – e caricarli su camion e treni diretti anche in Germania, senza curarsi della stretta osservanza di leggi e divieti.

Se questo è il quadro, anche senza volere per forza attaccare la magistratura, ci permettiamo di avanzare qualche dubbio. Mettiamo pure che le norme non siano state applicate alla lettera: ma qualcosa non funziona, se davvero gli indagati devono rispondere di non aver sterilizzato e profumato la monnezza che da mesi, putrescente, ammorbava l’aria di Napoli. Insomma: era o non era un’emergenza, anche al tempo in cui le indagini sono cominciate? E l’obiettivo, il primo, il più urgente, non era sgomberare le strade dai rifiuti? E se, sia pure accorciando colpevolmente le procedure, la città è rimasta sommersa dai sacchetti, come si può sperare, oggi che la situazione è più grave, di liberarla nel rispetto della legge?

Interrogativi come questi non riguardano solo il merito dell’inchiesta, ma il senso stesso dell’emergenza e della strategia scelta dal governo per affrontarla. Per sua natura, forse per indolenza, o anche solo semplicemente per la complicazione burocratica della sua macchina amministrativa – oltre che spesso per la scarsa propensione dei cittadini a fare il proprio dovere – l’Italia non è nuova a logiche emergenziali. Nella sua storia recente, anzi, ha dovuto rassegnarvisi, sia davanti a calamità naturali come terremoti o alluvioni, sia per fronteggiare mafia, criminalità e terrorismo.

In questi casi, dalla routine dei provvedimenti ordinari si passa a logiche, quando non a leggi, eccezionali. Lo si è fatto e lo si fa a malincuore, sapendo che è uno strappo che porta con sé anche il rischio di conseguenze impreviste, magari assegnandosi un lasso di tempo circoscritto, ma alla fine, se non c’è altra strada, ci si è arrivati e ci si arriva. È esattamente quel che è successo a Napoli, e che il governo ha voluto sottolineare con la solennità della seduta del Consiglio dei ministri convocato irritualmente in città.

Ma all’indomani dell’annuncio, e quando la linea dura scelta dal governo fa a fatica i primi passi, la magistratura si muove in contropiede. Dopo aver inquisito, e posto ormai sotto processo, il governatore e primo commissario all’emergenza Antonio Bassolino, mira al secondo, il prefetto Pansa, e colpendo la vicecommissaria Di Gennaro avverte il terzo, Bertolaso, appena insediato come sottosegretario. Ce n’è abbastanza per capire che all’ombra dei mefitici effluvi di Napoli – e in mancanza dei disinfettanti e dei profumi richiesti dalla legge – un nuovo scontro s’è aperto: tra Berlusconi e il governo da una parte, e dall’altra i procuratori che ne hanno azzoppato il braccio operativo, il commissariato straordinario per i rifiuti solo da pochi giorni messo in condizione di funzionare. Poiché lo scontro è appena cominciato, è difficile dire come finirà. Ma un punto è chiaro: i magistrati spesso sono a favore delle logiche da emergenza quando tocca a loro gestire i poteri eccezionali che ne derivano. Se invece a essere rafforzati sono altri poteri, si schierano contro. Il che non riduce la necessità di fare presto chiarezza. Perché i cittadini hanno diritto di sapere se possono fidarsi dello Stato.


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